Fo, istrionico
affabulator cortese |
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------------------------------------------------------------------------ Ricco
è il catalogo degli artisti che devono la propria fama a un'unica opera.
Uno di costoro è certamente il bavarese Carl Orff, singolare figura di
didatta della musica e di operista post-wagneriano, il cui nome è oggi
ricordato solo grazie all'enorme popolarità dei Carmina Burana da lui
firmati nel 1936. Questa cantata, nell'esecuzione “in forma scenica”
firmata dalla regista-scenografa Mietta Corli, ha chiuso ieri sera (tutto esaurito
e applausi caldissimi) la “stagione lirica estiva” organizzata dalla
Fondazione Toscanini al Castello di Vigoleno - messo a disposizione dalla famiglia
Facchetti - con Provincia, Comune di Vernasca e Fondazione di Piacenza e Vigevano.
E non si trattava che della seconda parte di uno spettacolo misto di prosa e
musica - che sarà replicato domani sera alle 21.30 - la cui prima “metà”
è stata occupata, con formidabile successo, da una straordinaria esibizione
di Dario Fo alle prese con due suoi monologhi tratti da autentici classici del
teatro del Novecento come Mistero buffo e Fabulazzo osceno: una performance,
a suo modo, in tema col Medio Evo terreno e carnale evocato dai Carmina Burana.
Proprio dai contenuti letterari di questi ultimi è utile prendere le
mosse per illustrare l'operazione condotta da Mietta Corli (che ha già
inscenato questo allestimento con enorme successo in Portogallo, al Teatro Coliseu
di Ópera, gestito da quel Cìrculo Portuense che coproduce lo spettacolo
di Vigoleno).
I “Carmina”, com'è noto, mettono in musica una serie di testi
latini e altotedeschi attribuibili ai “clerici vagantes”, gli studenti
girovaghi del XIII secolo: voci di un Medio Evo goliardico e “cortese”,
quasi pagano, con versi inneggianti al vino, all'amore e alla natura. Se l'irresistibile
- e, per la sua epoca, stupefacente - carica ritmica ed espressiva di questa
partitura ha guadagnato ad essa le attenzioni di una lunga lista di danzatori
e coreografi, Corli va un passo più in là: ne tira fuori quell'autentica
pièce teatrale che ogni ascoltatore, da 67 anni, vi ha scorto in controluce.
Un'azione scenica che (assistita dai costumi di Manuela Bronze e dalle luci
di Marco Filibeck) fa giostrare sul palco con grande abilità i cantori
del Coro del Circulo Portuense (buono ma non eccelso come massa corale, si rivela
un'ottima compagnia di attori-danzatori), i ragazzi del Coro Ars Canto Giuseppe
Verdi (bravi), i figuranti e i solisti (molto bella la “scena del cigno
arrostito”, col tenore solista Massimiliano Barbolini che supera bravamente
le difficoltà di Olim lacus colueram).
Non è esagerato (alla luce delle coreografie di Marcelo Ferreira) dire
che il tutto viene trasformato in un affascinante, variopinto, “musical
medioevale” (o proto-rabelaisiano). Anche qui, com'è sua abitudine,
Corli fa uso e talora abuso di immagini proiettate: ma va detto il Kitsch da
tarocchi del Medio Evo proiettato sul mastio del castello, in qualche modo,
“ci sta”.
Mi convince poco, piuttosto, il finale “nuziale” ispirato ai versi
finali di Cour d'Amours, che non mi pare tener conto né dell'incompatibilità
“ideologica” (de Rougemont insegna) tra Amor Cortese e matrimonio,
né di quanto di oscuro e tenebroso vi è nella ripresa finale del
grande tema della “Fortuna”. Avversata da molti come “classico
del Kitsch”, quella dei Carmina Burana è musica che ha bisogno
di grandi direttori d'orchestra (massimi esempi noti, la sublime incisione di
Jochum nel '68 e l'esecuzione diretta da Muti alla Scala nel '95) per rivelarsi
nella sua peculiare bellezza. L'ancor giovane Massimiliano Caldi è, per
fortuna, un grande direttore: la vibrante, spiritata compattezza che riesce
a ottenere da un'Orchestra Toscanini infarcita di (bravissimi) allievi del corso
per professori è qualcosa di fenomenale.
Solisti, oltre al citato Barbolini, il soprano Danielle de Niese (bravissima
e aggraziata, ma in udibile sforzo quando nei sopracuti) e il baritono Andrea
Cortese (buon cantante-attore, efficace nella grassa parodia ecclesiastica di
Ego sum abbas). Lascio per ultima la vera stella della serata: Dario Fo, con
la sua faccia, la sua voce, la sua disarmante umanità (lo abbiamo scovato
in osteria mentre tentava di persuadere il signor Pietro di Vigoleno, suo coetaneo,
a salire sul palco con lui), la sua inossidabile grandezza.
Inframmezzati da imprevedibili battute fuori copione, i suoi monologhi (Rosa
fresca aulentissima, esilarante “lezione” che rivendica fieramente
l'origine oscena e popolare della celebre lirica del Duecento attribuita a Cielo
d'Alcamo; e La parpaja topola, formidabile cavalcata in “grammelot”
sul tema provenzale del giovane ingenuo spedito lontano con la scusa che la
sua fresca sposa ha dimenticato il proprio sesso a casa della madre) ricreano
ogni volta il miracolo di un fenomeno del teatro, che riesce a trasformare tutto
il proprio corpo in una travolgente macchina da spettacolo.
Non fatevi ingannare dall'età che visibilmente affatica il grande Dario
fuori dal palco, dal suo corpo stanco, dal tono sovente dimesso delle sue recenti
interviste: Fo è l'albatros di Baudelaire, incerto quando cammina ma
sublime quando si alza in volo.
Oliviero Marchesi
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